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lunedì 4 settembre 2023

Arsenal player statistics



















Arsenal's Golden Boots/Scarpa d'Oro dell'Arsenal
1988/89 Alan Smith (23 goals)
1990/91 Alan Smith (23 goals)
1991/92 Ian Wright (24 goals)
2001/02 Thierry Henry (24 goals)
2003/04 Thierry Henry (30 goals)
2004/05 Thierry Henry (25 goals)
2005/06 Thierry Henry (27 goals)
2011/12 Robin Van Persie (30 goals)

2018/19 Pierre Aubameyang (22 goals)

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Appearance 50th goals/Presenze al 50 goals
68.   Ian Wright (1991-1998)
78.   Patrick Aubameyang (2018-2022)
104. Thierry Henry (1999-2007 & 2012)
106. Alexis Sanchez (2014-2018)
111. Emmanuel Adebayor (2006-2009)
112. Dennis Bergkamp (1995-2006)
128. Alexandre Lacazette (2017-2022)
146. Robin Van Persie (2004-2012)


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Arsenal Player of the Season
Arsenal Player of the Year Award,Arsenal Supporters Club



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last update 23 september 2023

martedì 22 novembre 2011

La parabola di Arteta da Barcellona all'Arsenal

Sette anni fa, una figura importante del calcio spagnolo in Inghilterra telefonò a David Moyes e gli chiese: "Stai ancora cercando un centrocampista centrale? Qualcuno che detti i tempi all'attacco? Sei pronto a rischiare con un giocatore che resta spesso in panchina in una squadra che non sta girando al massimo?". All'epoca Mikel Arteta andava regolarmente in panchina nella Real Sociedad de Fútbol, ma il tecnico dell'Everton FC decise di seguire il suo istinto e di puntare su di lui. E raramente un giocatore straniero ha saputo adattarsi così bene allo spirito del club. Poi, dopo quasi 180 gare di Premier League giocate con il club di Liverpool, il centrocampista si è trasferito all'Arsenal FC a settembre. Nel frattempo, l'Everton era cresciuto insieme a lui: una nuova struttura per gli allenamenti, le serate europee e una finale di FA Cup, ma a 29 anni lo spagnolo voleva confrontarsi con una nuova sfida. Arteta è approdato all'Arsenal sulla scia di uno dei trasferimenti più complicati che si ricordino, quello che ha riportato Cesc Fàbregas all'FC Barcelona. Un addio che ha lasciato un vuoto profondo nello spogliatoio dei Gunners e ancor più in campo.  I paragoni con il connazionale si sono ovviamente sprecati, ma Arteta non gli ha dato troppo peso: "Se provassi a sostituirmi a Cesc, comincerei con l'approccio sbagliato. Io sono qui da poche settimane, mentre lui è rimasto otto anni. Per me sarebbe impossibile sostituirmi a lui sotto questo punto di vista".  Ma Arteta e Fàbregas non hanno condiviso solo il destino di fari di centrocampo dell'Arsenal. Entrambi, infatti, sono approdati a La Masia, l'accademia giovanile del Barcellona, nel 1987. Fàbregas aveva dieci anni e Arteta, 15. E anche se il N°8 dell'Arsenal è rimasto in Catalogna solo per due anni, quell'esperienza lo ha formato come giocatore. "Ho imparato a passare il pallone al Barcellona, allenandomi con giocatori come [Josep] Guardiola, Rivaldo, Luís Enrique e [Luís] Figo - racconta -. La prima volta in prima squadra ho giocato un'amichevole di pre-campionato contro l'Hertha Berlino, avevo 16 anni e sono entrato all'intervallo al posto di Guardiola. Dopo la partita mi ha parlato a lungo di tutto ciò che avevo fatto in campo. Non c'è un aiuto migliore che un giovane possa chiedere". All'Arsenal, dove è uno dei volti nuovi, ha il compito di portare la sua esperienza a centrocampo, qualcosa che cerca di fare anche fuori dal terreno di gioco. "Lo spogliatoio è lo specchio dei periodi difficili che si hanno in campo, o di quei 15, 20, 75 minuti quando la squadra soffre davvero. In quei momenti si vede come reagiscono i tuoi compagni, gli sguardi tra loro dicono tutto. Quando tutto sembra perso un buono spogliatoio si compatta. E' importantissimo". Poi c'è Arsène Wenger, un manager che deve dare sempre l'esempio quando qualcuno mette dubbi sulla filosofia del club. "Sono rimasto sorpreso da quanto sia diretto il suo messaggio - spiega Arteta -. I giocatori non ricevono 40 istruzioni. Wenger dà a un giocatore sei o sette idee ed è tutto. Dopo 20 minuti sai già cosa stai facendo". A 29 anni, Arteta ha accettato il rischio di trasferirsi a un club che sta attraversando il periodo più complicato dagli anni '90. Wenger è sicuro di poter ottenere il meglio da Arteta: "E' un giocatore completo, sa fare le due fasi ed è molto ambizioso. Tutti ingredienti per essere un giocatore perfetto per l'Arsenal". Dovesse aver ragione Wenger, il futuro dell'Arsenal sarebbe sicuramente più sereno.

venerdì 22 luglio 2011

Vestivamo alla Mariner

Paul Mariner
Comincia a giocare dalle sue parti, nel Lancashire, al Chorley, club dilettantistico di non-League, prima di essere ceduto al Plymouth Argyle per quattro soldi nel luglio 1973. Poche settimane della nuova stagione e Paul Mariner ha già rubato il posto a Jimmy Hinch, mettendosi in luce come uno dei migliori attaccanti della Third Division. Nel 1975-76, in coppia con Billy Rafferty trascina l’Argyle alla promozione in Second Division. Su di lui mettono gli occhi club di First Division quali Ipswich Town, West Bromwich Albion e West Ham United, ma è di Bobby Robson, nell’ottobre 1976, la padriniana offerta che il club del Devon non può rifiutare. Con sette gol in dieci giornate di campionato, Mariner stava già dimostrando di saper segnare in Division Two come faceva in Division Three, e così l’Argyle ne accetta la valutazione fatta dall’Ipswich: 220.000 sterline più i cartellini di Terry Austin e John Peddelty.La grande considerazione in cui Robson teneva Mariner al club continua quando il futuro Sir Bobby lascia l’Ipswich per la nazionale inglese, sogno che grazie a lui Paul realizza sei mesi dopo l’arrivo al Portman Road e che si spezzerà dopo 35 presenze e 13 reti.Al primo anno coi Blues, in 31 partite segna 13 gol compresa la tripletta nel 4-1 casalingo sul West Ham United. Nel 1977-78, con 22 reti è il miglior marcatore dei suoi e si porta a casa il pallone firmando un hat-trick nel 6-1 esterno sul Millwall nel sesto turno di FA Cup. Campagna chiusa in gloria con l’1-0 in finale sull’Arsenal. Guida la classifica marcatori anche nel 1978-79 e nel 1979-80, annata conclusa con la tripletta nel 6-0 sul Manchester United. Nelle ultime tre stagioni al Portman Road bolla sempre meno, ma ha in carniere 131 gol in 339 partite quando, nel febbraio 1984, firma per l’Arsenal e 150.000 sterline. Già nella fase discendente della carriera, ad Highbury vive i suoi anni migliori; e nell’agosto 1986, dopo aver timbrato 17 volte in 70 uscite coi Gunners, va a svernare al Portsmouth. Alla prima stagione al Fratton Park riporta i Pompey in First Division, traguardo che il club inseguiva da quasi trent’anni.Divorziato dal 1989 e unitosi in seconde nozze con Dedi (dalla prima moglie Alison, sposata nel 1976, ha avuto tre figli), dopo il ritiro prova per un po’ a fare il “commercial manager” del Colchester United prima di allenare i ragazzini in Giappone come membro di un programma tecnico internazionale organizzato da Charlie Cooke. Prima di metter su un’agenzia di rappresentanza di calciatori, lavora anche come opinionista alla BBC Radio Lancashire nel Friday-night Non-League Hour, talk-show del venerdì sera dedicato al calcio minore. Ma il richiamo del campo è troppo forte. Dopo un breve ritorno in Inghilterra come istruttore alla Bolton School, rientra negli States per allenare le giovanili dell’S.C. Del Sol a Phoenix, Arizona. Nell’autunno 2003, diventa assistente allenatore alla Harvard University. Nel 2004, lo chiamano come secondo di Steve Nicol, ex difensore del Liverpool e della nazionale scozzese, i New England Revolution della Major League Soccer.Un mese fa, le voci di un suo ritorno a casa, come vice se non capo allenatore, al Plymouth Argyle, in ambasce nel Championship, la cadetteria inglese. Voci corroborate dalle sue dimissioni del 17 ottobre e presto confermate: già l’indomani gli viene affidata la panchina di head coach del suo vecchio club, con Paul Sturrock che resta come manager. Il cerchio si chiude là dove tutto era cominciato.
di Christian Giordano, da http://footballpoetssociety.blogspot.com

giovedì 21 luglio 2011

Questo è un lavoro per Supermac.

Malcom McDonald
Comincia la carriera da terzino nel Tonbridge prima di arrivare, nell’agosto 1968, al Fulham, dove Bobby Robson lo avanza a centravanti. Quando Robson se ne va, MacDonald cade in disgrazia e nell’estate 1969 viene ceduto al Luton Town per 30 mila sterline. In due stagioni agli Hatters viaggia a oltre un gol ogni due partite: 49 in 88 gare di campionato. Nel maggio 1971 il Newcastle United lo firma per 180 mila sterline, allora record del club. Nel Tyneside, Macdonald diventa l’idolo più grande dai tempi di Jackie Milburn. In uno dei suoi primi match coi Magpies (si dice “mègpìs”, non “megpàis”) rifilò una tripletta al Liverpool, e per tutte le sue cinque stagioni fu il miglior marcatore del Newcastle, segnando un totale di 138 gol in 258 presenze. Quando i Magpies raggiunsero la finale di FA Cup, nel 1974, andò a rete in tutti i turni della competizione, e l’anno seguente eguagliò il record realizzativo individuale con l’Inghilterra infilando una cinquina contro Cipro. Di conseguenza, l’intero Tyneside restò di sale quando, nell’agosto del 1976 per 333.333 sterline, lasciò St James’s Park per l’Arsenal. Nella sua prima stagione ad Highbury, con 25 gol vinse la classifica marcatori della First Division. Nel 1977-78 trascinò i Gunners alla finale di FA Cup, persa 1-0 contro l’Ipswich Town. La stagione seguente, dopo appena quattro partite, subì un serio infortunio a una gamba in una trasferta di Coppa di Lega contro il Rotherham United. Nel luglio 1979, a soli 29 anni, Malcolm Macdonald annuncia il ritiro. In poco più di due stagioni ad Highbury, aveva realizzato 27 gol in 107 partite fra campionato e coppe. Al Craven Cottage torna come dirigente di marketing, poi viene nominato allenatore. Nei suoi primi mesi in carica, tiene il club alla larga dalla zona-retrocessione in Fourth Division e nell’1981-82 guida il club alla promozione in seconda divisione.La stagione seguente per poco non porta i Cottagers alla massima serie, ma nel marzo 1984, in seguito a rivelazioni sulla sua vita privata, lascia il Fulham per gestire un pub a Worthing. Rientra nel calcio come manager dell’Huddersfield Town prima di trasferirsi, nel 1993, a Milano come impiegato nelle telecomunicazioni sportive. Per un periodo fa anche il procuratore calcistico e contribuisce a portare al St. James’s Park un suo assistito, la (presunta) stella brasiliana Mirandinha.Da allora è nel cosiddetto “after-dinner circuit” come speaker, oltre che commentatore per radio locali e columnist del nord-est dell’Inghilterra. Celebre il suo talk-show radiofonico sull’emittente Century FM intitolato "The 3 Legends". Con Supermac, le altre due leggende sono Eric Gates e Bernie Slaven.
di Christian Giordano, da http://footballpoetssociety.blogspot.com

mercoledì 1 giugno 2011

Tony, capitano nell'anima

Tony Adams

Il calcio, e lo sport in generale, non è fatto solo di gesti atletici, giocate strabilianti, reti, tabellini e statistiche, il calcio è fatto anche di grandi gesti; e sono i grandi gesti che rimangono nell’immaginario collettivo. Tony Adams nasce il 10 ottobre 1966 nei sobborghi di una swingin London ancora ebbra della vittoria dei “Tre leoni” nel mondiale giocato pochi mesi prima. Nel destino del ragazzo ci sarà una sola squadra, l’Arsenal, di cui lui sarà il capitano coraggioso, l’assoluta bandiera ed il traghettatore del “Boring Arsenal” di Taylor che con il suo contributo si trasformerà nell’Arsenal champagne di Wenger. Tuttavia l’immagine che ho impressa a fuoco nella mente non riguarda il Tony Adams gooner, non riguarda un suo successo, non riguarda neanche la sua proverbiale grinta, riguarda bensì un suo magnifico gesto. Inghilterra, estate 1996: al grido di “Football is coming home” nel paese della sterlina si giocano i Campionati Europei di calcio. La nazionale inglese è circondata da un fondato ottimismo che fa pensare a tutti che i “bianchi” possano finalmente mettere le mani sul trofeo continentale. La squadra è ricca di fuoriclasse e di giocatori allo zenith della loro carriera; come non essere ottimisti quando nel team hai gente come Seaman, Gascoigne, Platt, Pearce, Adams, Sheringam, e Shearer (the one and the only). La campagna europea degli inglesi parte in sordina con un pareggio di 1-1 con la Turchia, gol di Shearer (ma che lo dico a fare). Seguirà una vittoria sulla fiera Scozia 2-0 (Shearer e Gascoigne) ed infine un netto successo sull’Olanda per 4-1 (Shearer 2, Sheringam 2). L’Inghilterra vince e convince e termina al primo posto del suo girone. La stampa inglese euforica si esalta come raramente capita e probabilmente mette un pò di pressione alla squadra, comunque il successo sembra scritto nel destino quando nei quarti una Inghilterra in tono minore supera ai rigori la Spagna. Tra gli inglesi e la finale ora ci sono solo i tedeschi, sempre i soliti tedeschi, che non producono calcio spettacolo, ma alla fine sono sempre lì, ad un passo dal paradiso.Ricordo un memorabile titolo di un giornale (credo il Sun) che in previsione della sfida con la Germania, riesumava lo spirito combattivo della seconda guerra mondiale e sbatteva in prima pagina Gascoigne e Pearce con l’elmetto titolando “Let’s blitz the fritz”.Arriva il fatidico giorno, 26 giugno 1996; nella semifinale l’Inghilterra parte a spron battuto, 3 minuti e Shearer (come sempre) porta i suoi in vantaggio; al quarto d’ora però il vecchio Kuntz pareggia i conti, 1-1 e palla al centro. Per tutta la gara, supplementari inclusi, è l’Inghilterra che gioca il calcio migliore e Gazza in spaccata manca il golden gol per un centimetro; si va ai rigori, come sei anni prima quando a Torino, nella semifinale mondiale, Pearce scagliò il pallone a Superga. Shearer, Platt, Pearce (che memore dell’errore fatto ad Italia90 calciò un pallone che pesava un quintale), Gascoigne e Sheringam segnano per l’Inghilterra, replicano però con fredda precisione per al Germania Hassler, Strunz, Reuter, Ziege e Kuntz! Si va ad oltranza.Wembley trattiene il fiato; sulla palla per gli inglesi si porta Gareth Southgate, centrale del Villa con ottime referenze; tira, ma Kopke para! Gelo nello stadio. Per i tedeschi va al tiro Moller, rete! Wembley ammutolisce, i tedeschi urlano e cantano la loro gioia e Southgate sprofonda in un pianto dirotto inginocchiandosi a terra.Cosa può fare in quei momenti un “capitano nell’anima”? Pur con il morale a pezzi Tony Adams rimette in piedi Southgate, se lo carica sulle spalle e lo porta a raccogliere l’applauso del pubblico inglese, sofferente ma fiero come non mai. Adams nella sua biografia racconterà che in quel momento era un uomo distrutto; annegherà poi da solo la sconfitta nella birra, ma nonostante tutto trovò il modo di confortare il compagno tramortito dal peso di aver fallito un appuntamento con la storia. Grandissimo Tony, capitano senza fascia al braccio (all’epoca la vestiva con orgoglio Shearer), simbolo del calcio inglese che ancora una volta era arrivato vicino alla vittoria e se l’era vista sfuggire.Tony, gigante comprensivo e sensibile, guarda negli occhi tutto lo stadio, è pronto per nuove sfide, sa di essersi battuto al meglio e con lui i suoi compagni, compreso Southgate che gli piange sulle spalle.
di Charlie Del Buono, da https://ukfootballplease2002.blogspot.com - dicembre 2006

martedì 14 luglio 2009

John Hartson ha un tumore al cervello.

John Hartson, 34 anni, ex nazionale gallese di calcio, ha un tumore al cervello. Lo ha annunciato in un comunicato l'ospedale londinese dove il giocatore è in cura. Hartson ha vestito per 51 volte la maglia della sua nazionale, a livello di club ha giocato in parecchie squadre tra cui Arsenal, West Ham e Celtic, dove ha giocato per cinque stagioni prima di ritirarsi a febbraio 2008. Hartson, dopo il ritiro diventato commentatore televisivo, sarà adesso sottoposto a sedute di radioterapia e chemioterapia. da http://sport.repubblica.it/Caro John, questa battaglia la devi proprio vincere.
Destinato a lottare, sempre e comunque: la vita di John Hartson è stata una lotta al coltello fin dall'inizio. Ha lottato per emergere tra i giovanissimi del suo quartiere, ha lottato con i pregiudizi degli inglesi, lui... gallese di successo nella terra dei ricchi; ha lottato e molto in campo contro difensori costretti a qualsiasi fisicità per avere ragione del suo 1.86 e dei suoi 84 chili. Anche ora, fuori dal campo Hartson è costretto a lottare. E non con il gran mal di testa che fastidioso e insistente lo corrodeva da qualche giorno: perché al primo controllo in ospedale lo hanno subito sottoposto a un ciclo di chemioterapia intensiva. Un tumore ai testicoli non individuato aveva già portato conseguenze al cervello. Hartson è già prima linea: "I know I can win this", ha scritto agli amici che gli facevano coraggio. E ce ne vuole tanto per vincere una battaglia così. Hartson ha vestito giovanissimo la maglia del mio Arsenal, e poi quella del mio Celtic. Ma non era solo per questo che lo adoravo: in campo era tutto quello che mi sarebbe piaciuto essere, fossi stato un giocatore di calcio. Incurante dei difensori, forte solo della sua testardaggine e del suo fisico impressionante. Un'esplosione di vitalità in un gioco estremamente elementare, fatto di forza, di sano agonismo. Di feroce determinazione. Rozzo, greve, sgrammaticato: e vincente. In Galles lo chiamavano "the miner", il minatore. Perché quelle mani grosse come badili sembravano rubate al lavoro di scavo: e neppure con i gomiti andava troppo per il sottile. Quando cominciò a giocare con il Luton, squadra operaia nella quale lottava come un veterano a dispetto dei suoi sedici anni, non passò molto tempo prima che l'Arsenal lo giudicasse l'uomo giusto per il suo calcio fisico, che richiedeva una boa a spigolare con i gomiti là davanti. Boring Arsenal, palla lunga: pedalare, e Hartson a sportellare come davanti al bancone del pub. "Fossi in te non lo farei" disse una volta a Sol Campbell che inaugurò il suo derby contro il Tottenham con una tacchettata dietro la caviglia. Si suonarono come tamburi, uscirono pesti e senza ammonizioni: e diventarono amici. "In campo combattevo il fuoco con il fuoco" dice di quelle sfide Hartson che in Sol, Rio Ferdinand e John Terry trovò avversari pronti a tutto per fermarlo. Ma animati anche da un grande senso di rispetto. "Non ho i piedi, non ho il talento - diceva - non ho la tecnica: ma in campo do tutto me stesso. Conosco solo questo modo per giocare a calcio. E se non lottassi così non sarei mai arrivato a giocare in Premier League". In realtà, lottatore nato, sapeva passare il pallone di prima, era un maestro del gioco di sponda, capace di vedere il gioco anche spalle alla porta, aprendo gli inserimenti dei compagni. E soprattutto colpiva di testa con una precisione impressionante, restando immobile, in una tecnica di sospensione che sembrava una levitazione più da giocatore di basket che da calciatore. Hartson in campo era così, un combattente, un lottatore nato consapevole che quello che non aveva in tecnica doveva mettercelo lui. Non si tirava indietro di fronte a nulla: quando nel Celtic un paio di ragazzini soffrivano il clima da corrida del derby con i Rangers, e si facevano da parte, arrivava lui. Volavano buffetti che lasciavano il segno, e zoccolate negli spogliatoi. Ma nessuno con lui in campo faceva la voce grossa. Memorabili un paio di episodi: non sopportava di essere preso in giro per il suo accento, e visto che anche in Inghilterra parlava in gallese stretto, lo prendevano in giro spesso. Fino al primo contrasto: "Bastava spalmarsi contro la sua schiena e trovare i suoi gomiti sulle costole per portargli un pochino più di rispetto" dice Fernando Ricksen, che scatenò con lui una rissa furibonda in un derby nel quale furono espulsi entrambi. Hartson, che rischiò il riformatorio da ragazzo per via di una eccesiva predilezione per le scommesse che lo aveva portato anche a commettere qualche furtarello, ha trovato nel calcio la sua riscossa: e da ragazzo di borgata di un quartiere popolare di Swansea è diventato giocatore simbolo. Diventò il teen-ager più pagato di sempre del calcio inglese, passando dal Luton all'Arsenal. Con quasi 4 milioni di sterline fu il giocatore più pagato dal West Ham segnando 33 gol in 73 partite. Nel 2001 passando al Celtic per 6 milioni di sterline, vince molto e diventa un idolo: 88 gol in cinque stagioni. Gli manca l'aggancio ai Mondiali: lui e Giggs, così diversi, ce la mettono tutta ma non riescono a far volare i draghi. Qualche trasferimento minore, sempre lottando e segnando: West Bromwich, Nottingham, Norwich; poi il ritorno a Swansea dove nel febbraio dell'anno scorso Hartson chiude l'armatura nell'armadio. Si trasforma in un divertente opinionista in una trasmissione in lingua gallese, Sgorio, in onda su una tv privata: amato sul campo, amatissimo sugli schermi dove diventa incredibilmente educato, gentile, affabile. Persino elegante. Ma sempre tagliente nei suoi giudizi. "I know I can win this" ci ha detto Hartson, il combattente. Io ci credo: e glielo auguro di tutto cuore. 
di Stefano Benzi, da http://it.eurosport.yahoo.com/stefano-benzi/

venerdì 4 luglio 2008

Eroe per una notte.

Un giorno, in futuro, ognuno di noi sara’ famoso per almeno 5 minuti. Andy Warhol
Mi chiamo Paul, Paul Vaessen. Sono nato a Gillingham nel 1961 in una famiglia proletaria, dove mio padre Leon gioco’ a calcio, sia per il Millwall che per il Gillingham. Dopo che ci siamo trasferiti a Londra , anch’io ho coronato il mio sogno di entrare a far parte di una squadra professionistica , e nel 1977 sono stato acquisito dall’Arsenal. Ho debuttato nelle fila dei gunners il 27 settembre 1978, era un match di coppa UEFA, una notturna contro la Lokomotive Lipsia, compagine non male ai tempi. Il debutto in Prima Divisione(se non sbaglio ora la chiamate Premier League o Premiership) e’ avvenuto solo sul finire di quella stagione, il 14 maggio 1979 per la precisione , in un derby contro il Chelsea.Proprio nell’estate del 1979 firmai il mio primo contratto da professionista.Ora ero diventato veramente un calciatore dell’Arsenal! Nella stagione 1978/79 segnai 5 gol collezionando 13 presenze ma ,cio’ che mi ha reso famoso nella storia dei gunners, e’ avvenuto in una tiepida serata italiana. Era il 23 Aprile 1980 e allo Stadio Comunale di Torino, il mio Arsenal si giocava l’accesso alla finale di Coppa delle Coppe contro la Juventus. All’andata ad Highbury, pur pressando gli italiani per quasi tutta la partita, eravamo usciti dal campo con un poco rassicurante 1 a 1 .Io non ero sceso in campo neanche per un minuto e la stessa sorte, almeno inizialmente, mi tocco’ anche a Torino. La partita fu’ molto combattuta anche al ritorno ma il risultato non si sbloccava e noi cominciavamo ad innervosirci. Che sfiga, avremmo perso la possibilita’ di disputare la finale solo per la regola dei gol segnati in trasferta! Al 75° minuto pero’, il nostro coach Don Howe, mi disse di prepararmi velocemente perche’ sarei entrato molto presto.Cosi’ fu e nel successivo quarto d’ora successe cio’ che mi avrebbe cambiato la vita, o almeno era quello che credevo all’epoca. Giusto il tempo di posizionarmi in campo, dare un occhio ai ragazzi e dalla fascia arriva un cross di Graham Rix. Io guardo il tiro partire e mi dico:”Dai Paul , buttala dentro”.Non era certo la mia specialita’ il colpo di testa , ma al 77° minuto di “quella “ semifinale di coppa, colpisco la palla come non avrei piu’ fatto e la spedisco alle spalle del grande Dino Zoff.1 a 0 per noi e palla al centro! Di quel momento in cui la palla e’ in rete ricordo soprattutto il silenzio dello stadio, i cori degli italiani che si interruppero e lo spicchio di curva biancorossa che impazzi’ di gioia. Eravamo in finale e a Bruxelles l’Arsenal l’avevo portato proprio io.Piu’ tardi venni a sapere che quella era la prima volta che la Juventus era stata sconfitta fra le proprie mura da una squadra inglese.E il tabellino sul giornale era li’ che parlava chiaro:”Gol decisivo di Paul Vaessen”! Non importa che poi quella finale la perdemmo malamente ai rigori con il Valencia, anche perche’ io assistetti ai 120 minuti piu’ rigori dalla panchina. Ora questa storia mi piacerebbe finirla qui, ma da quel momento inizio’ il declino della mia breve carriera e , conseguentemente, della mia vita. Nel 1982 mi infortunai seriamente ad un ginocchio durante un derby con il Tottenham, cosi’ che saltai interamente tutta la stagione 1982-83 e l’estate seguente, quando avevo appena 21 anni, fui costretto al ritiro dall’attivita agonistica.In tutto avevo segnato 9 gol in 39 partite con i Gunners. L’Arsenal non fece molto per aiutarmi, ma d’altre parte non saprei neanche dire cosa avrebbero potuto fare.In fondo avevo 21 anni e ancora tutta una vita davanti.Provai a fare il postino ma in quel periodo incontrai anche cio’ che mi avrebbe affossato definitivamente,la droga. Penso che vada benissimo fare lavori come il postino, l’idraulico o l’operaio quando da giovane inizi a farlo, ma vi assicuro che non e’ facile quando hai fatto il calciatore nell’adolescenza ed ora , quando imbuchi le lettere , le persone del quartiere si danno di gomito e sussurrano”ma si e’ proprio lui, e’ quello che ha giocato nell’Arsenal…guarda come si e’ ridotto”. Cosi’, essendo ormai diventato, un consumatore di droga, dovevo fare anche piccoli furti per assicurarmi la dose quotidiana, visto che con il lavoro non guadagnavo abbastanza( il vizietto mi costava circa 125£ al giorno). Cio’ mi porto’ a conoscere anche il carcere per ben sei volte. Mi lascio’ anche mia moglie e si porto’ via con se’ mio figlio Jamie.Stavo veramente toccando il fondo, avevo bisogno di uno scossone, dovevo reagire. Nel maggio 1993, dopo aver preso coscienza definitivamente di essere un tossicodipendente, mi feci ricoverare per due mesi in una clinica a Bexleyheath. Uscito da li’ mi trasferii ad Andover, dove conobbi’ Sally Tinkler.Anche lei aveva gia’ una figlia, la piccola Abigail di due anni. Vivemmo li’ per un anno prima di trasferirci a Farnborough per stare piu’ vicini alla sua famiglia. Stavo riscoprendo la felicita’ e con Sally avemmo anche un figlio tutto nostro, Jack. Fu in quel periodo, a meta’ degli anni 90’, che scoprii Dio e cercai di ricollocarmi nel mondo del lavoro, seguendo un corso per fisioterapisti sportivi. I terribili dolori al ginocchio e i fantasmi del passato pero’, mi fecero tornare alla droga con conseguente deterioramente dei rapporti con Sally. Cosi’ feci di tutto per rovinarmi la vita un’altra volta .Lasciai Sally e i bambini e mi trasferii a Bristol da mio fratello. Proprio li’ un fredda mattina di agosto nel 2001, il mio amico Jason Murphy mi trovo’ senza vita nel bagno che condividevo con mio fratello.Era l’8 di agosto. Il coroner nei giorni successivi dira’ che si e’ trattato du una morte dovuta ad overdose di eroina. Era l’8 di agosto, avevo appena quarant,’anni. Ora spero solo che , i tanti ragazzi che gremiscono il nuovo stadio costruito ad Ashburton Grove, e che si vantano dei successi ottenuti dalla loro squadra, si ricordino che un viaggio a Bruxelles ai loro padri e amici piu’ grandi , e’ stato offerto tanti anni fa da un ragazzo come loro, con uno strano cognome olandese, un certo Paul, Paul Vaessen.
di Luca Ferrato, da UK Football, please