Si stava meglio quando si stava peggio? Non si sa, ma a volte sembra proprio di si: quando c'erano il mistero e il dubbio, quando c'era d'attendere per sapere notizie che oggi ti si sviluppano davanti. Bisognava muoversi, darsi da fare, agitarsi, e spesso non era sufficiente. Fili tesi attraverso una stanza, appoggiati al televisore, tragitti supplementari in autobus e malintesi telefonici, tutto per arrivare a sfiorare qualcosa e a sentirsi coinvolti, anche con modalità postdatata. Oggi accendiamo il televisore al sabato pomeriggio e piombiamo direttamente al Villa Park o ad Highbury (finchè ce lo lasciano), ci appiccichiamo ad Internet e seguiamo la partita controllando ogni aggiornamento in tempo reale, tanto che l'ultimo spettatore allo stadio non si è ancora seduto che noi abbiamo già appreso, dal salotto, autore della rete e modalità. Compri Four Four Two e persino le sicofantesche riviste delle varie società all'edicola in centro, e ti piacee ne godi, ma a volte sembra tutto così facile che non c'è gusto e allora ti chiedi davvero se non si stesse meglio quando si stava peggio, quando andavi all'aeroporto (di Bologna, nel mio caso) alla domenica ora di pranzo, appena arrivava il volo da Londra, sperando che gli addetti della British Airways si impietosissero e ti lasciassero - invece di buttarlo nel bidone - un Sunday Mirror,un Sunday Times, un Sunday qualcosa che ti permettesse di leggere le cronache delle partite nello stesso giorno - mio Dio! - di quando lo potevano fare gli inglesi. A volte andava buca, a volte non ce n'era (ma figurati...) una copia salvabile o decente, a volte arrivava lo straccetto di fogli ed andavi subito a cercare le pagine dello sport, ma se ti capitava l'occhio su qualcos'altro rischiavidi soffermarti lì, tanta era la fame di ambiente britannico. Adesso su Internet si leggono ogni giorno quotidiani inglesi a non finire, nello stesso giorno e nelle stesse ore di lassù, anzi prima perchè alle 2.30 della mattina il The Times è già online e non so quanti londinesi l'abbiano già letto, in quel momento. Ma non è un male, non vogliamo trasformarci in vecchi lamentosi, èl'evoluzione dei tempi, e se abbiamo rimpianti è meglio che ce li teniamo per noi - o su una fanzine, o in un libro - e non rompiamo le scatole a chi ha tutto il diritto di appassionarsi al calcio inglese e rimane incredulo quando gli si racconta cosa si faceva una volta per arrivarci.Si usciva da scuola, alle medie appena oltre metà anni Settanta, ed invece di dirigersi verso la fermata dell'autobus si andava a piedi - dieci minuti, pieno centro ma in zona che per me non esisteva neppure, tutto casa e scuola com'ero - all'unica edicola che forse aveva qualcosa. Qualcosa che poteva essere un quotidiano di cui non ricordo il nome, forse The Times stesso, qualcosa che ogni tanto poteva essere acquistato centellinando i denari, per scorgere i risultatiscritti come ancora mi piace tanto, tipo:
Arsenal 2 (1) Sunderland 33, Price 56
Tottenham 0 (0)
44,578
Oppure, ma questa è una storia lunga, si bramava addirittura una rivista, addirittura il mitico Shoot che in realtà era molto infantile ma per me era come un dono dal cielo. Scoprii Shoot un giorno del 1976, credo, arrivato per misteriosi motivi all'edicola di Piazza Maggiore, e mi ci tuffai sopra prima che qualcuno potesse rubarmelo. C'erano addirittura foto a colori, poche, ma quellacarta interna tipo giornale aveva un profumo inconfondibile e io l'adoravo. Chiesi all'edicolante come l'avesse e lui - credo, ma mica ricordo le parole - disse che era arrivata per caso, mi disse anche che se la volevo ogni settimana dovevo ordinarla ad un'agenzia e mi diede il numero. Telefonai, sorprendentemente lucido pensai che sarebbe stato meglio farla arrivare alla mia solita edicola vicino alla scuola, e dalla Inter... qualche cosa mi dissero che era possibile, quasinon ci credevo. Dopo tre settimane l'edicolante, quello vicino, delle figurine e non di Piazza Maggiore, mi diede la copia ed il pensiero che io potessi comprare, anche in ritardo di dieci giorni, un settimanale di calcio mi pareva un sogno. Infatti crollò presto: dopo tre numeri non arrivò più nulla, io feci passare qualche giorno - non ho mai avuto un grande coraggio nelle proteste - poi chiamai la Interqualcosa e chiesi docilmente spiegazioni. Caddero dalle nuvole e mi ferirono con la loro antipatia, facendomi probabilmente compiere il mio ingresso nel mondo dei "grandi", della gente che se ne strafrega dei sogni: finsero di non avere mai portato a Bologna alcuna copia di Shoot, ed addirittura il mio interlocutore mi disse "ma guardi che è una rivista porno!", e alloraprobabilmente le tre copie di Shoot che avevo in casa non le avevo lette bene, perchè io avevo trovato solo il Luton Town e lo Shrewsbury, non qualche donnina che in quel momento - vero, vero - mi interessava certamente di meno. Dopo un paio d'anni a Shoot mi abbonai addirittura, mi facevo inviare ogni fine mese le quattro copie settimanali, tutte assieme per risparmiare, tanto a me bastava leggere e guardare le foto, non certo avere quell'attualità che mi dava la radio, la BBC con il suo World Service, le dirette delle partite rovinate dal fruscio del sabato pomeriggio, una routine che mentre gli altri adolescenti uscivano mi teneva - volentieri - appiccicato al tavolo dalle 15.45 alle 18.30 ed anche più, con il quaderno dei compiti davanti così non stavo a correre il giorno dopo. Era un'esperienza bellissima e terrificante: bastava che passasse qualcuno e il segnale si indeboliva, ma la radio era in cucina e non potevo certocostringere genitori e fratelli a non frequentarla, mi mettevo la cuffia con le "orecchie" imbottite e speravo di sentire tutto quello che mi serviva, anche se dopo le 18, quando i risultati erano definitivi, il segnale si indeboliva e dovevo spostarmi su un'altra frequenza, a volte incerta, a volte accavallata ad altri linguaggi astrusi che non capivo, a volte sparita del tutto, e allora dovevo attendere le 23.45 (ricordo bene?) per il notiziario definitivo, e lo era sul serio perchè non si giocava alla domenica, sabato alle 18 era tutto finito. E potevo spostare i cartoncini con i simboli delle squadre nel "portaclassifica" che Shoot regalava, e che a fine anno era rovinato dal troppo uso. Naturalmente, come vadano ora le cose lo sanno tutti, ma era semplicemente unascusa per parlare del passato e gettare sale nelle ferite, le stesse che con il loro dolore permanente - ogni volta che uno stadio inglese viene chiuso, ogni volta che un calciatore mediterraneo veste la maglia di una squadra britannica (gli scandinavi no, loro vanno bene) - ci fanno continuamente chiedere se si stia meglio ora, in diretta da Goodison Park e subito dopo via la linea e spazio alla pallavolo (non è una critica a Tele+, sia chiaro, che sul calcio inglese habenemerenze infinite), che non una volta, quando c'erano l'ansia della scoperta e il mistero della trasmissione radiofonica. Mi astengo dal giudizio, però, perchè io e gli altri nostalgici non abbiamo alcun diritto di impedire alle nuove leve della passione inglese di avvicinarsi alle partite e alla loro atmosfera attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e i viaggi a basso costo (che belli!): oppure mi trasferisco a fare il cane da slitta in Antartide, così gli uomini della base McMurdo mi fanno leggere il quotidiano solo una volta alla settimana, quando arriva il cargo con i giornali, e la tempesta di neve che fa friggere il segnale di BBC Antarctica mi ricorderà di quando mia mamma passava davanti al forno e faceva sparire il risultato di Carlisle-Hull City.
Faccio un po' fatica a calarmi nello spirito della fanzine, e spiego perché. Innanzitutto, la facilità con cui si scrive in prima persona mi mette a disagio: è un privilegio che - se proprio deve esistere - dovrebbe essere riservato ai grandissimi giornalisti, anche se in genere viene reso proprio semplicemente da quelli che ritengono tali e quindi più importanti di ciò di cui si occupano, avallati evidentemente dai direttori che concedono loro questa libertà per timore di perderli. In secondo luogo, superato a fatica l'ostacolo io/ego, non so mai se sia il caso di essere seriosi e buttare lì un pezzo come se scrivessi su una bella rivista (il giornale quotidiano e la sua stessa filosofia di base, transitoria, non mi hanno mai attirato) o invece catapultarmi nello spirito stesso della fanzine e buttarla sul personale: visto che chi la legge non ha certo bisogno di sentirsi raccontare eventi storici che in genere conosce benissimo, perché altrimenti non sarebbe un assiduo lettore/scrittore della fanzine stessa, mi sentirei un po' fuori posto nel raccontare la cronaca della finale di FA Cup del 1975 o quella del 1980, per cui che faccio? Faccio quello che perlomeno mi sembra più originale e tornando alle prime righe di questo delirio la ri-butto sull'io/ego e narro qualcosa che ho vissuto personalmente, così almeno le sensazioni e le piccole curiosità saranno una novità per qualcuno. E indovinate dove si va a finire? Sulla "prima volta". La prima volta in Inghilterra e la prima volta in uno stadio, ovvio, sperando che interessi a qualcuno. Primavera 1979: a sorpresa (in famiglia stavamo decentemente, ma soldi da scialare non ce n'erano proprio) ottengo dai miei genitori la sospirata vacanza-studio in Inghilterra.Tra le date disponibili scelgo ovviamente quella a metà agosto, con lo scopo preciso di occuparmi di calcio in ogni momento lasciato libero dallo studio della lingua, che peraltro avevo già iniziato ad assorbire tramite la radio, il BBC World Service, ed una certa predisposizione alle lingue straniere (quella che tragicamente non ho, invece, per i numeri). Arriviamo dopo un viaggio patetico, concluso per motivi che non ricordo con una notte a dormire sul pullman che doveva portarci da London Gatwick alla nostra destinazione nel nord di Londra, e dopo circa dieci minuti dalla presentazione al padrone di casa, il signor Everett, simpatico signore sui 35 anni dai capelli scarsi e rossicci con tanto di barbetta, arriva la mia prima domanda: signor Everett, io sono un tifoso dell'Arsenal, non che c'è qualche maniera di andare a Wembley sabato prossimo per la Charity Shield ? Non potendo impallidire perché già era bianchiccio, il signor Everett si mise a ridere: "io sono tifoso del Tottenham e vuoi che ti porti a vedere l'Arsenal ?". Ma la sua disponibilità nei confronti dell'ospite era totale: tramite amici si procura due biglietti per la lower standing enclosure e tappandosi il naso dal punto di vista etico mi accompagnò a Wembley. Allora, per capire come mi sentissi quel giorno bisogna fare un passettino indietro: seguivo il calcio inglese da qualche anno, ma avevo toccato il momento di massima emotività solo tre mesi prima di quella vacanza, nel maggio del 1979, assistendo come impietrito alla finale di FA Cup tra Arsenal e Manchester United, quella del 2-0 per i Gunners già nel primo tempo, dei due gol dello United (o "Manchester" e basta come scrivono i quotidiani...) negli ultimi tre minuti e della rete della vittoria di Alan Sunderland appena 45" dopo il pareggio di Sammy McIlroy. Di fronte a quelle immagini, al boato profondo dei tifosi nella "curva" alla destra dello schermo, visibili sullo sfondo mentre Sunderland veniva abbracciato dai suoi compagni di squadra, provai una profondissima emozione e - erroneamente, perché non è questo il carattere distintivo del calcio inglese - pensai che solo lassù potessero esserci partite così emozionanti e incerte, specialmente se le paragonavo a quelle del campionato italiano (che già aveva iniziato ad attirarmi molto poco, e con esso tutte le folcloristiche manifestazioni tipo striscioni e fumogeni e tamburi) che sembravano tutte finire 0-0, specialmente nelle grandi sfide. Ancora emotivamente mosso da quella partita, accolsi quasi come un sogno la possibilità di rivedere quella stessa squadra in quello stesso stadio, solo tre mesi dopo. Chi legge queste righe comprenderà tranquillamente ciò che sto cercando inutilmente di descrivere e che provai dal momento in cui mi alzai nella mia cameretta, quel mattino di agosto, e venni immediatamente colpito dalla sensazione che di lì a poche ore avrei visto non solo la mia prima partita di calcio in Inghilterra, ma a Wembley e tra Arsenal e Liverpool. Non potevo chiedere di più, ovvio. Uscimmo dalla casetta di Southgate e salimmo in macchina, salutati da uno zio dei signor Everett che era tifoso dell'Arsenal e sottolineò beffardamente il fatto che il nipote stesse andando a vedere la squadra che probabilmente sopportava meno. Devo dire la verità, non ricordo tutto quello che accadde, forse per la troppa emozione: tragitto in auto, probabilmente lungo le strade da Southgate verso ovest, poi ultimo tratto in treno fino ad una delle stazioni intorno allo stadio, e l'impatto micidiale con i colori rossi e gialloblu (l'Arsenal oltretutto giocava con la stessa divisa della finale di FA Cup, quella meravigliosa gialla con colletto blu stile camicia, pantaloncini blu e calze gialle) che popolavano i dintorni di Wembley. Non ricordo assolutamente di avere fatto le scale (quelle esterne) ma certamente non potrò mai dimenticare il momento in cui mi trovai nella semioscurità della parte bassa della tribuna, e le squadre uscirono in fila dal tunnel sotto di me e si avviarono camminando, con i manager in testa, verso il centro del campo. Impossibile che mi passi di mente l'esecuzione di God save the Queen accompagnata da quasi 90.000 persone ("oh mamma!" fu il commento di mia madre quando le dissi quanta gente c'era stata quel giorno), impossibile che mi escano di testa le sciarpe di cotone e di raso e i "ministriscioni" che singole persone tenevano sollevati sopra la testa, tesi tra due bastoncini. Quel giorno andò storto il risultato: 3-1 per il Liverpool, e appresi solo in seguito che molti critici avevano considerato quella partita come una delle più perfette che i Reds avessero disputato in tutta la stagione. Ma ho ancora in mente una frase che il signor Everett mi disse ad un certo punto, e che ha continuato a frullarmi in testa anche quando mi è parso che l'evidenza degli anni successivi raccontasse il contrario: il gol di Frank Stapleton, verso la fine e già sul 2-0 o 3-0 (chisseloricorda) per il Liverpool, venne accolto da un boato e da un'esultanza che mi stupirono, e il mio benemerito accompagnatore commentò "i tifosi dell'Arsenal sono proprio pazzi, continuano ad incitare la squadra anche quando perde". Uscendo dallo stadio Everett incontrò un suo conoscente che aveva appuntamento con noi alla macchina, e questo signore mi fece un regalo che ancora conservo caro: una sciarpa rossa di raso, in cui si legge solo ARSENA perché l'ultima lettera è stata slabbrata via, sfilacciata assieme al resto della sciarpa. Il motivo? Era stata tenuta fuori dal finestrino quel giorno di maggio in cui i Gunners avevano vinto la FA Cup, e dopo qualche chilometro di auto lanciata e clacson suonato per festeggiare la forza dell'aria l'aveva conciata così. Non vorrei esagerare, ma quella sciarpa era una reliquia per me, perché era un'eredità tangibile (E IN MANO MIA!) di un giorno che mai più potrò dimenticare. E non so se il gentilissimo signor Everett abbia riso sotto la barbetta, per la sconfitta dei Gunners nella Charity Shield, ma mi sono "vendicato" presto: sette giorni dopo iniziava la stagione di First Division, andammo al White Hart Lane per Spurs-Middlesbrough e di fronte ai miei occhi il Boro vinse 3-1 (giocava il pelatone Armstrong, lo ricordate?, e la maglia era la strepitosa rossa con fascia bianca orizzontale) mentre l'altoparlante comunicava che qualche decina di chilometri più a sud il debutto in massima serie del Brighton and Hove Albion era stato rovinato da una squadra di Londra in maglia rossa con maniche bianche e cannoncino sul petto che aveva violato il Goldstone Ground vincendo 4-0.
di Roberto Gotta, da UKFP n° 1 - dicembre 2002