La Versailles di Arsène Wenger è un centro sportivo costato dieci milioni di sterline nell'Hertfordshire, a Nord di Londra, lungo la Bell Lane, località St Albans. È un posto mitico, perché dentro c'è l'odore buono del calcio. Anche la nazionale di Capello si allena qui. Il tecnico dell'Arsenal, un francese alto come un palo della luce nato a Strasburgo 61 anni fa, l'ha disegnato personalmente, perché fosse chiaro chi era il re in questo parco giochi. È laureato in ingegneria, del resto. E soprattutto è l'allenatore più vincente del club. Lo guida da quindici anni e ha guadagnato 3 Premier League, 4 Coppe d'Inghilterra e 4 Community Shield. Da sei anni resta a secco, ma fa niente. I suoi colleghi britannici lo hanno eletto il migliore tra loro dell'ultimo decennio. Ha carisma e un fortissimo senso di sé. La società è fatta a sua immagine e somiglianza. Non la prima squadra, l'intero pacchetto, giovani e riserve comprese. «Questo è il nostro laboratorio. Il nostro presente e soprattutto il futuro». I giovani. Il suo vero pallino. E' scommettendo su di loro che ha costruito la sua leggenda, anche se i vivai del City e dell'Everton sono più produttivi. Ma Wenger è l'uomo che oltre ad avere investito dieci milioni sul diciassettenne Walcott e dodici sul diciottenne Ramsey quando avrebbe potuto prendere Ibrahimovic o Dzeko, ha costruito Jack Wilshere, il nuovo profeta di una intera nazione. E prima di lui Ashley Cole. E sempre Wenger, con la sua spocchia da galletto, nel 2003 andò a rubare Fabregas al Barcellona, cioè il paradiso. Lo spagnolo aveva 16 anni. «Io per te ho un paradiso migliore». Ha ripetuto l'operazione con Ignasi Miquel, il centrale più ammirato d'Inghilterra. Oggi Fabregas è il capitano dei Gunners e il Barcellona lo rivuole indietro. «Lasciai la Spagna perché qui erano convinti che i giovani valessero quanto i giocatori della prima squadra». La filosofia non è cambiata. I nemici del francese dicono che la sua è una scelta di comodo. Compra la speranza perché con campioni affermati sarebbe costretto a vincere. E quella è una responsabilità che gli fa paura. «Fesserie. Io il calcio lo so pensare solo così». All'Accademia di Colney un grande viale alberato introduce al parcheggio che porta agli uffici. Sulla destra un capannone nasconde un terreno regolare in erba sintetica. Lì vicino ci sono la mensa, una palestra, la sala per i massaggi, il gabinetto medico, la sauna e una piscina. Gli spogliatoi sono sei. Oltre l'edificio dell'amministrazione dieci campi che riproducono fedelmente le caratteristiche dell'Emirates Stadium si inseguono a perdita d'occhio. Tre sono della prima squadra, tre delle giovanili, uno per le amichevoli e le partite ufficiali dell'Under 18. Le giovanili dell'Arsenal sono lì. Ogni giorno si allenano settanta ragazzi. A coordinare il lavoro c'è Liam Brady, l'irlandese che giocò nella Juve e che per i Gunners è stato una bandiera. È ingrassato. Decisamente sereno. «Giochiamo tutti allo stesso modo, per questo Wilshere si è inserito in Premier senza problemi». Parte atletica quanto basta, parte tecnica all'infinito. I ragazzi sono alti, leggeri, rapidi. Hanno nomi esotici, ma la maggior parte viene da Londra. Almeno qui il multiculturalismo ha funzionato. Passano ore facendo uno-due, torello, palleggiando di destro e di sinistro, cercando inserimenti in profondità. La palla deve essere sempre bassa. E soprattutto deve essere loro amica. Una catena di montaggio. Dai nove ai vent'anni ogni singolo gruppo impara a memoria il 4-3-3. Sono i cloni di Wenger, bambini di Versailles programmati per conquistare il mondo.
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